Se al fianco di molti grandi uomini della storia si annusa la presenza di un quattro zampe, il padre della psicoanalisi Sigmund Freud può vantare la preziosa collaborazione del suo Chow Chow Jofi.

Un cane che, per carattere, rispecchia perfettamente il significato del nome datogli dal famoso pscicoanalista: “Jofi” in lingua ebraica significa “bene, va bene” ed è stato scelto da Freud proprio perché, le ore che passava con il proprio Chow Chow, erano le migliori della giornata, gli unici momenti in cui poteva rilassarsi e svuotare la mente.

Un legame prezioso che lo studioso descrive in una lettera a Marie Bonaparte, sua paziente ed allieva che gli regalò Jofi e che, nel frattempo, cresceva la sua sorellina pelosa Topsy. Una missiva in cui Freud afferma: 

“Le ragioni per cui si può in effetti voler bene con tanta singolare intensità a un animale come Jofi, sono la simpatia aliena da qualsiasi ambivalenza, il senso di una vita semplice e libera dai conflitti difficilmente sopportabili con la civiltà, la bellezza di un’esistenza in sé compiuta. E, nonostante la diversità dello sviluppo organico, il sentimento di intima parentela, di un’incontestabile affinità. Spesso, nel carezzare Jofi, mi sono sorpreso a canticchiare una melodia che io, uomo assolutamente non dotato per la musica, ho riconosciuto essere l’aria dell’amicizia nel Don Giovanni: <Voglio che siamo amici… del cuore (con molta modestia ed umiltà, mi permetto di aggiungere personalmente)>”.

Parole che descrivono la forza di questo legame che ha scandito le giornate del padre della psicoanalisi dal 1930 al 1937, anni in cui il quattro zampe si è dimostrato all’ altezza del suo nome anche nel relazionarsi con i fortunati avventori dello studio di papà. Chi li ha conosciuti racconta come, sin da subito, Jofi si sia dimostrato un ottimo supporto per Freud nella gestione dei propri pazienti. Un vero e proprio termometro degli stati d’animo di chi si susseguiva sul lettino del famoso studioso: se sentiva che il paziente era oltremodo teso ed in ansia si allontanava da lui per accucciarsi vicino a papà Freud, se, al contrario, ne percepiva tranquillità e voglia di raccontarsi si sdraiava al suo fianco per metterlo a proprio agio e facilitare in questo modo il lavoro del suo padrone.

L’aiuto che Jofi era in grado di dare allo studioso non si limitava alla mera comprensione dello stato d’animo dei pazienti. La sua presenza in studio era fondamentale per la gestione degli appuntamenti: da perfetto orologio naturale, trascorsi gli usuali 50 minuti della seduta, il quattro zampe si alzava dalla sua postazione, si dirigeva alla porta dello studio e iniziava a fissare il paziente, invitandolo ad andarsene e togliendo quest’odiata incombenza a Freud.

Quando nel 1937 Jofi morì, lasciò un vuoto in Freud, che poi in seguito prese un altro cane Chow chow che chiamò Lun e che nel 1939 – quando fu costretto a scappare per via dei nazisti – portò con sé.